In questi giorni di inverno, quando le leggende di un passato che si fa sempre più lontano tornano di attualità, riemergono nei racconti famigliari volti, usi, costumi di un tempo in cui la vita quotidiana non godeva degli agi e delle comodità di oggi. “Negli anni ’50-’60– ricorda mia madre con una vena di nostalgia malcelata- ripararsi dal freddo dell’inverno non era cosa semplice: i piumini erano di là da venire e un capo immancabile dell’abbigliamento maschile, soprattutto dei più vecchi, era il tabarro. Chi è della mia età ricorda i nonni uscire di casa nelle giornate d’inverno, diretti alla messa domenicale come a una partita di carte all’osteria, avvolti in questi grandi mantelli.” E ancora oggi, proprio nei giorni di fine gennaio, quando in molti paesi della bassa, compreso il mio, si torna a “cantar la merla” …….i tabarri escono dalle soffitte e godono di un momento di gloria.
Ma è proprio vero che noi Millenials ci siamo persi anche questo? Mosso da un misto di invidia e curiosità, mi sono documentato e “…se dici tabarro, alcune associazioni di idee sono obbligatorie: la Bassa, Giovannino Guareschi, Guido Piovene…tutta una campagna antica, rustica e orgogliosa fra Novecento e L’albero degli zoccoli.”(Alberto Mattioli, La Stampa, Domenica 20 Gennaio 2019).
Un articolo, quello di Mattioli, ricco di informazioni che sono andato ad approfondire e che ora vi propongo, anche perché molte sono le sorprese.
Il tabarro, forse qualcuno non lo sa, non è comunque mai morto e ancora oggi ci sono molti estimatori del vecchio capo di abbigliamento e tanti sono i nostalgici di quei sei metri (!) di stoffa che hanno riparato dai nebbioni e dalle gelate del Po anche il buon Peppone. Io questo già lo sapevo, perché frequento Mercante in fiera a Parma e ogni volta mia madre ( a lei, qualcuno l’avrà capito, devo il mio interesse per le tradizioni!) si ferma allo stand de il Tabarrificio veneto di cui magari poi vi parlo, perchè merita davvero.
Una cosa che invece ignoravo l’ho scoperta grazie a Mattioli: l’articolo, infatti, era stato scritto in occasione di un evento del giorno prima: l’annuale Tabarrata che aveva radunato a Oleggio una cinquantina di appassionati del tabarro, convenuti nella cittadina piemontese per dichiararsi al mondo innamorati del panno scuro che avvolge fino al mento. Mattioli, scriveva di loro: “Oggettivamente elegantissimi, orgogliosamente retro, magari un filo teatrali: sembravano il Coro della Scala in libera uscita dall’Ernani”.
Il giornalista proseguiva ricordando che del tabarro parla già Giovanni Boccaccio in una novella del Decameron. Non per mettere in dubbio quanto andavo leggendo, ma per passarvi le indicazioni necessarie per poterla leggere, perché è sempre un bel leggere, ho chiesto aiuto a chi potete immaginare e che per certe cose è decisamente meglio di wikipedia. Allora, recuperate il testo del Decameron e andate alla giornata ottava, novella seconda “Il prete di Varlungo si giace con monna Belcolore; lasciale pegno un suo tabarro….”.
L’excursus nel mondo del tabarro di Mattioli continuava “con il tempo, il tabarro è stato via via sempre più associato agli umili: Manet lo fa indossare, sotto una tuba sformata, al suo Bevitore d’assenzio; Puccini ne fa il simbolo della sua opera più “sociale”, Il tabarro, appunto, ambientata nei bassifondi di Parigi. Oggi, invece, intabarrarsi è piuttosto una forma di dandysmo”. Per ammissione di qualche cultore del genere, se vai in giro vestito come Peppone “…un po’ di innocuo esibizionismo c’è”, come la voglia di distinguerti dalla massa con i suoi piumini che la fanno assomigliare all’omino delle gomme Michelin. Il tabarro, invece, nasconde le forme, “…è caldo, non pesa e nasconde pure la pancia”. Da ciò, sempre secondo quanto riportato da Mattioli: “ Sentenza finale, che vale come una predica di Don Camillo: – Se il soprabito ha le maniche, non scalda il cuore -, e tanti saluti a tutti i loden del mondo.”
Ma quanto costa intabarrarsi oggi? I prezzi vanno dai 500€ del modello più economico, fino ai 3800 di un modello DOC. Sandro Zara, che realizza a Mirano in Veneto splendidi tabarri, sostiene che: “ Il tabarro è un capo trasversale, un tempo portato dal giudice come dal brigante, dalla badessa come dalla tenutaria del casino”. Il suo Tabarrificio Veneto, l’unico esistente in Italia, produce sei capi al giorno per un totale di circa mille e cento capi all’anno, utilizzando per ciascuno ben sei metri di stoffa; i modelli sono diversi e c’è anche una linea femminile. I nomi che distinguono la produzione maschile evocano paesaggi e storie della Serenissima: Brigantino, Ruzzante, Nobilomo, Ambasciata, Lustrissimo… mentre per noi, gente di pianura, c’è il modello Mercante Padano.
La linea femminile, oltre a qualche capo unisex di quelli più importanti, propone linee più svelte, Marostica, Filanda, Belluno, Hepburn. Sì, proprio lei, l’icona di stile che molte donne continuano ad ammirare, lo indossò nella sua prima apparizione a Venezia negli anni Cinquanta. C’è pure un capo con cappuccio, Ca’ d’Oro, realizzato anche in rosso e quindi perfetto per le feste di fine anno.
Volete un personaggio famoso di oggi intabarrato? Vi riporto quanto scritto sempre nell’articolo di Mattioli. A Oleggio “sono tutti contentissimi, perché Spalletti, l’allenatore di calcio, si è fatto fotografare intabarrato da un giornale sportivo”.
A questo punto, non mi resta che informarvi che La Tabarrata 2020 si terrà il 1 febbraio a Cittadella, in provincia di Padova. Per i dettagli, potete consultare la pagina facebook Civiltà del Tabarro.
Sicuro di aver colto nel segno, vi lascio con una curiosità e alcuni versi di Cesare Zavattini.
La curiosità è sempre contenuta nell’articolo de La Stampa “…in Veneto, fino a qualche decennio fa, quando due si innamoravano, l’uomo diceva alla prescelta. “Ti do un’intabarrata:”, perché si mettevano sotto lo stesso abito”. Insomma, quel che si dice, “Due cuori e un tabarro”.
E, per finire, alcuni versi tratti da “Da li me bandi” di Cesare Zavattini riportati sul pieghevole dell’ “Artigiana sartoria veneta. Tabarri Spolverini Saltafossi” (poesia anche nella denominazione)
I porta ancora al tabar
da li me bandi.
A ghé an vèc dal Ricovar Buris-Lodigiani
c’al sgh’invoia dentr’in fin i oc
cme s’al vrés dir
an vöi pö vedr’ansön.”
(Portano ancora il tabarro
dalle mie parti.
C’è un vecchio del Ricovero Buris-Lodigiani
che vi s’involta dentro fino agli occhi
come volesse dire
non voglio vedere nessuno.)
I par usei
la gent in bicicleta.
Apena al pé
al toca ancor la tera
a turna in ment
col ch’i evum vrü smangà.
( Sembrano uccelli
la gente in bicicletta.
Appena il piede
tocca ancora la terra
torna in mente
quello che avevamo voluto scordare.)
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