Arrotini di Val Rendena: ricordare il passato per affermarsi nel presente e progettare il futuro

C’è un tema di grande attualità sempre molto dibattuto, quello delle migrazioni. Quando leggiamo, parliamo, giudichiamo… le ondate di persone che da varie Nazioni arrivano in Europa, ed in particolare nel nostro Paese, dovremmo fare lo sforzo di ricordarci che non è così lontano il tempo in cui anche noi siamo stati emigranti diretti in qualche parte del mondo. Anzi, continuiamo ad esserlo, seppur con modalità diverse.
Mi fermo qui. Quanto scritto sopra, infatti, introduce l’argomento vero e proprio che sto per presentarvi. Vi parlerò di un mestiere, gli arrotini, che ha interessato flussi migratori dalla Val Rendena, prima che il turismo portasse in valle lavoro e ricchezza, diretti soprattutto verso l’Inghilterra e gli Stati Uniti, Paesi nei quali il mestiere del moleta (termine del dialetto trentino che indica gli arrotini) era allora poco conosciuto.
Vi guiderò alla scoperta di questo antico lavoro, attraverso un sintetico resoconto di due eventi cui ho partecipato, durante i miei soggiorni a Carisolo, nell’estate del 2017 e nel giugno di quest’anno, cui farò seguire un paio di autorevoli pareri.

Il primo evento ha avuto luogo lunedì 7 agosto 2017 nell’auditorium comunale di Carisolo, con la visione del film “Tagliati per gli affari ” ( “Sharp families”), proiettato anche al Trento Film Festival dello stesso anno.
Il regista Patrick Grassi ha portato a conoscenza del numeroso pubblico presente in sala che “ci sono ancora tantissime persone che mi contattano dagli USA e dall’Inghilterra per raccontarmi le storie dei loro antenati “moleti” tanto che non basterebbe un film per raccontarle… Non solo, anche persone della mia età, cioè giovani, si interessano alle tradizioni della loro terra e alle loro radici, anche se vivono all’estero, a dimostrazione che anche in una società liquida, per usare il termine del famoso sociologo Bauman, il tema delle radici è importantissimo e ci sono tante persone che cercano di capire da dove vengono.” Il regista puntulizza che “la vicenda degli arrotini mi ha permesso di raccontare pezzi di storia del Novecento, visti da una piccola prospettiva. Un esempio: nel mio film c’è la Chicago di Martin Luther King, vista da un trentino emigrato.” Grassi ha precisato che “il libro, e il relativo film, affrontano l’ultimo flusso migratorio, quello dopo la seconda guerra mondiale, diretto verso USA e Inghilterra. Le piazze italiane, infatti, erano già occupate e l’unica scelta era emigrare…all’interno delle emigrazioni specializzate, quelle degli arrotini erano singole, a differenza, per esempio, di quelle dei minatori. Essi riuscirono, però, a costruire subito una rete e a formare comunità e associazioni, le più famose quelle di New York e Londra, a vantaggio del relativo business.” Il regista ha fatto notare che “seppure in numeri piccolissimi, le migrazioni continuano ancora oggi, in modo positivo e molto spesso in posizioni dominanti. Da rilevare che chi è stato emigrante ha sviluppato un forte senso imprenditoriale e, una volta tornato in valle negli anni Settanta e Ottanta, ha saputo investire nell’ondata che stava arrivando in val Rendena, il turismo, e si è lanciato con successo in un’altra avventura in proprio.”
Grassi ha chiarito che “i migranti partivano grazie ad un contatto, un famigliare che li invitava. Bisogna ricordare che in queste valli, di moleti in origine non ce n’erano e da qui nessuno partiva conoscendo l’arte di affilare coltelli, nonostante dovessero dimostrare con una carta che erano bravi a fare quel mestiere… spesso chi veniva chiamato era una persona di fiducia di chi già si trovava all’estero e imparava il mestiere negli Stati in cui veniva chiamato, America o Inghilterra.
Determinanti per la sopravvivenza del mestiere nel tempo, e quindi della fonte di guadagno, i cambiamenti che gli arrotini hanno introdotto per adattarsi ai quelli in atto nella società “… al giorno d’oggi gli arrotini, ma già dagli anni Ottanta, si sono inventati il sistema chiamato “affitta coltelli“, ossia per ogni cliente c’è un set di coltelli che ogni settimana viene sostituito con un altro affilato di tutto punto. Come si può immaginare, è stata un’idea geniale, primo perché fa risparmiare un sacco di tempo e poi perché non c’è più il problema del parcheggio del mezzo in sosta per compiere l’operazione di affilatura. All’inizio, si è presentata però la difficoltà costituita dall’investimento nell’acquisto dei coltelli da affittare. E per anni gli arrotini inglesi si sono riforniti proprio da una ditta di montagna.
Il regista-scrittore dichiara che ciò che l’ha spinto a portare avanti la sua ricerca è stato “ l’essermi chiesto, in primis, come fossero andate a finire le storie di chi era partito, ma anche come sta andando avanti questo lavoro, considerato che all’inizio di Pinzolo venendo da Giustino, si trova la statua di un arrotino e a scuola ci insegnano che siamo una terra che deve molto ai moleti per lo sviluppo della valle.

Gli ospiti e i relatori della serata sugli arrotini nell’auditorum di Carisolo a inizio agosto 2017
Il regista (secondo da destra) e i relatori della serata sugli arrotini nell’auditorum di Carisolo, agosto 2017

Il film, davvero molto coinvolgente ed emozionante anche per chi di questa valle non è figlio ma semplicemente ospite, presenta numerose testimonianze di emigranti e “racconta l’evoluzione della comunità rendenese attraverso il lavoro e il legame con la terra d’origine di tre famiglie che vivono tra un paesino di montagna e Londra, alle prese con la gestione di un lavoro umile diventato un business globale” (campanedipinzolo.it). Il film risulta, così, un “riassunto di storie, sentimenti e vite“, per usare le parole pronunciate al termine della proiezione dal Presidente della Pro Loco, Graziano Righi, che ha detto di aver apprezzato molto “la semplicità e la cura delle riprese”.
Il regista ha affermato che per lui “era fondamentale dare importanza, oltre ai personaggi, anche ai luoghi: Londra, con i suoi grattacieli e il traffico, la valle, col suo silenzio e le sue immagini ariose. Questa è stata un po’ la scelta che mi ha guidato ed è stata premiata. Documentare al giorno d’oggi è abbastanza semplice, ma emozionare documentando è ben più difficile, perché ci sono tanti fattori che devono coincidere e non sempre si riesce, nonostante l’impegno che uno ci mette sia molto“.
Andrea Scala, professore associato in glottologia linguistica all’Università degli Studi di Milano incaricato dal comune di Carisolo di una ricerca sulla toponomastica orale locale, si è complimentato con il regista perché ” quelli del film non sono attori, ma sei riuscito a far emergere una loro capacità di raccontare. Un’altra cosa significativa è che uno dei personaggi afferma che si è sempre immigrati, sia qua, che là. Mi piace sottolineare il fatto che gli emigrati da questa valle hanno elaborato una loro cultura, nel senso che hanno dovuto creare un insieme di conoscenze che permettesse loro di vivere questa nuova socialità, proiettati in un luogo nuovo dove era necessario sapere fare cose differenti, non sovrapponibili. Il nuovo gruppo sociale creato dai rendenesi su base professionale dà vita a una cultura più sfaccettata del luogo da cui sono partiti, con un ricco plurilinguismo. Evolvono, cioè, la propria cultura, pur continuando a mantenere rapporti con i luoghi di provenienza.
A tal proposito, Grassi rivela un episodio che l’ha colpito molto: “vidi un anziano parlare molto bene l’inglese e collegai questa sua abilità proprio alla sua emigrazione ed è stata un po’ la prima scintilla, anche perché poi è interessante vedere come riescano a sovrapporre i diversi registri linguistici. La vecchia generazione parla italiano con accento inglese, mentre la nuova generazione diversifica: quando è sul lavoro parla in inglese, nella vita privata, usa invece l’italiano.” Il regista racconta, inoltre, un altro interessante aneddoto “il film è stato venduto alla televisione svizzera italiana che il prossimo inverno lo proietterà. La loro richiesta di doppiarlo mi ha fatto venire i capelli bianchi, perché, con il doppiaggio in lingua italiana, la perdita del contenuto del film sarebbe stata grossissima, soprattutto si sarebbe perso quello che fa parte anche del non detto. Il fatto che uno dei giovani alterni italiano e inglese è una cosa importantissima, doppiarlo, magari con accento romano, è inaccettabile, in quanto verrebbe meno uno dei significati del film“.
Pensando al futuro, secondo Scala importante è l’affermazione di uno dei testimoni: “se lavoreranno duro, avranno sia la tradizione che il guadagno”. “Si tratta di un’affermazione di una lucidità straordinaria che troverebbe d’accordo tutti gli antropologi e studiosi di cultura popolare, perché le tradizioni sopravvivono laddove chi ne è il depositario è convinto di esserlo e vive una situazione di benessere e soddisfazione, mentre laddove chi è il depositario inizia ad associare alla tradizione una personale situazione di marginalità, di esclusione economica o culturale, dà il via a una crisi per cui, dopo un po’ di tempo finirà con l’interessare solo a chi ama il folclore, ma non più alla comunità. Questa sintesi corretta apre verso la dimensione del futuro, perché si inizia a parlare del cosa c’è e in che direzione si muove la comunità degli arrotini, chi prenderà in mano il lavoro, come si svilupperanno le conoscenze e come si trasformeranno”
A questo proposito il ricercatore aggiunge “mi ha colpito l’immagine dell’officina con persone che affilano i coltelli e, guardando i loro tratti somatici, si capisce che provengono da varie parti del mondo, mentre i proprietari delle aziende per cui lavorano e gli organizzatori sono rendenesi. Infatti cos’è successo? Gli eredi dei primi migranti sono usciti dall’officina e si sono spostati in ufficio, diventando i manager che selezionano il personale e organizzano il lavoro che ha mercati in varie parti del mondo. Mi sono chiesto anche se la tradizione dell’arrotino uscirà solo dagli uffici o verrà anche qualcosa di nuovo dalle officine. E’ la storia di coloro che si mettono in proprio, capiscono il lavoro oggi, tentano nuovi approcci presso la comunità di riferimento, o addirittura il Paese dove risiedono. E ora che la Brexit ne porterà indietro alcuni, la tradizione degli arrotini rendenesi avrà dei nuovi rami? E questi rami saranno affidati a coloro che entrano ora nei workshop?” Il regista sostiene che “si sono aperte anche tante attività collaterali, perché l’attività stessa si è specializzata molto e diversificata” e sostiene che ” la sfida del futuro è nelle mani di quelli che rappresentano la quarta generazione, che dovranno essere bravi a capire che la loro forza è stata quella di rimanere uniti, decidendo insieme come combattere la concorrenza con l’innovazione. La loro professione, infatti, cambia molto col cambiare delle città, ma l’unione rimane importante, poiché il fatto di avere clienti vicini aiuta ad essere più veloci e più competitivi. Se in una strada i clienti sono tutti tuoi, ovviamente è più conveniente. Questo è anche il motivo per cui in Italia il lavoro dell’arrotino non si è sviluppato come all’estero: uno per la tendenza degli italiani a non fidarsi, in questo caso dei coltelli degli altri, e due perché non c’è la concentrazione che si trova, per esempio, a Londra con intere strade piene di ristoranti.

Si è svolto, invece, a Spiazzo il 30 Giugno e il 1° Luglio, il secondo evento di cui vi voglio parlare: il Primo Raduno internazionale degli arrotini, all’interno del quale sabato 30 si è tenuto il Convegno “Arrotini: passato, presente e futuro”.

Graziano Riccadonna, vice presidente del “Centro Studi Judicaria”, ha spiegato che “il Centro Studi è da sempre attento a questo fenomeno, legato all’emigrazione” Ha definito il fenomeno degli arrotini come “ una particolare branchia della emigrazione fatta di fatica, dolore, miseria che i nostri antenati hanno vissuto sulla loro pelle. Ci sono documenti, alcuni presenti nelle mostre in questo primo raduno, che testimoniano appunto tutto ciò”.
Il Sindaco di Spiazzo, Michele Ongari, ha sottolineato come il raduno sia “motivo di soddisfazione e oserei dire orgoglio, perché riconosciamo a questo evento il merito di scoprire le nostre vere radici… Il senso di questo raduno è racchiuso in tre volontà:
1. rievocare la memoria di un fenomeno che ha caratterizzato la nostra comunità nei tempi passati e tenerla viva con documenti personali tramandati attraverso le generazioni. I nostri arrotini, dopo una vita itinerante, sono riusciti a consolidare la loro presenza con momenti di grande successo, dovuto a voglia di fare e capacità di svolgere un mestiere che è quasi un’arte
2. tentare di analizzare le prospettive attuali, perché si tratta di capire cosa i moleti si aspettano dal futuro. Personalmente, sono convinto che riusciranno a portar avanti la loro attività, adeguandosi alle uove istanze.
3. da ultimo, trovarsi in una festa, perché la convivialità non fa mai male.

Si è, così, entrati nel vivo del dibattito con Giuseppe Ferrandi, direttore del Museo storico del Trentino, che si è detto convinto che “ci sono tutti gli ingredienti perché questo raduno si possa consolidare nel tempo.” Ha chiarito che “parlare di mobilità di generazioni significa parlare di tantissime altre cose…l’emigrazione trentina è caratterizzata da un doppio elemento: quello degli artigiani che si muovono verso la pianura e altri continenti e quello della terra di confine. E il Trentino ha vissuto in modo intenso il cambiamento di Stato. Per quanto riguarda il primo, la migrazione del Trentino è una storia di lungo periodo e offre l’intero arco di tipologie di migrazione, dentro il quale c’è quella particolare degli arrotini, specializzata ed altamente professionale con un fattore identitario.” A questo punto ha ricordato che “ci sono state due grandi storiche alluvioni, la prima nel 1882 (considerata nelle statistiche la matrice delle ondate migratorie) la seconda del 1966 quando, finito il boom economico, vedendo le loro case travolte, gli emigranti considerano l’idea di tornare indietro.
Ferrandi ha chiuso il suo intervento con un’amara constatazione: “Il Trentino, terra di migrazioni, non ha un museo della emigrazione!” E anzi propone: “ Con un po’ di sforzo si potrebbe creare una forma di musealità diffusa.

E’ stato il turno di Enzo Giovannazzi Mondin della storica coltelleria omonima di Mortaso, frazione di Spiazzo. Dopo i ringraziamenti di rito, ha parlato ovviamente della storia della sua famiglia e della professione di arrotino “ …nata dal bisogno di trovar una alternativa di lavoro e poi diventata un’attività utile e remunerativa. Mio padre andò in giovane età a far l’arrotino ambulante in Germania e in seguito aprì un negozio a Forlì. Anche nella famiglia di mia mamma ci fu la necessità di emigrare: mio nonno affilava attrezzi in Svizzera e lì aprì un negozio. Nel 1924 nacque la coltelleria Mondin di Mortaso creata da Gilio Collini Mondin in una piccola baracca, distrutta però da un incendio cinque anni dopo, ma subito ricostruita ed ampliata nel 1942. Nel corso degli anni abbiamo continuamente aggiornato la tecnologia nel campo della produzione di coltelli. Il nostro livello qualitativo è eccellente ed è apprezzato sui mercati d’Europa, America e altri Paesi del mondo.

E’, quindi, intervenuta una giovane arrotina, Sara Maganzini, rappresentante dell’antica falegnameria Maestranzi di Giustino nella quale lavora da diciassette anni. Ha spiegato che “nel nostro lavoro è fondamentale ascoltare le esigenze del cliente” esprimendo un “sentito ringraziamento a chi ha organizzato il raduno, perché perdere il passato significa perdere il futuro“.

I pannelli delle mostre al primo raduno internazionale degli arrotini a Spiazzo, svoltosi il 30 giugno e 1 luglio 2018
I pannelli delle mostre al primo raduno internazionale degli arrotini a Spiazzo, svoltosi il 30 giugno e 1 luglio 2018

Nella seconda parte del convegno il primo a prender la parola è stato Eligio Ambrosioni, portavoce degli arrotini 3.1 che ha sottolineato come “Solo coloro che uniranno esperienza, approfondimento, continuo aggiornamento e scambio di opinioni e confronto con i colleghi potranno arrivare a risultati concreti e positivi”.
Ha spiegato poi che “anche questa è una professione 2.0 perché per esercitare il lavoro servono determinati supporti legati all’informatica, talvolta tanto detestata, ma che coi suoi dettagli ci permette di dialogare velocemente, scambiando opinioni, risolvendo problemi a distanza con un collega”. Ambrosioni ha evidenziato che “è indispensabile aggiornarsi. Purtroppo lo scetticismo ha impedito il confronto, perchè non è una attività che si può improvvisare. È bella come immagine la mola, ma oggi abbiamo bisogno di qualcosa di più…è un’attività complessa, articolata e remunerativa; quel che conta è farla con professionalità. Ho sempre sentito dire che nelle botteghe artigiane il mestiere bisogna rubarlo. No! La cosa più appropriata è spiegarlo, perché chi lo deve imparare abbia qualcosa su cui riflettere. Ripeto: servono formazione e approfondimento.

E’ stato quindi il turno di Domenico Lettig, portavoce degli Arrotini della Val Resia, ricordando che “risale al 1972 il primo monumento all’arrotino in Italia, a Pinzolo e che nel 1989 ci fu la prima mostra permanente.” Ha poi spiegato che “la promozione di questo mestiere avviene tra la formazione e la riscoperta delle radici. E’ importante anche la partecipazione a fiere sull’artigianato e a trasmissioni televisive. “ Ha reso noto che “è sorto un progetto con lezioni teoriche sulla storia della Val Resia e sui vari tipi di materiali da usare nella costruzione delle lame e su come affilarle”.

Nella terza ed ultima parte, quella dedicata al futuro, degno di nota il racconto di Aldo Lorenzi, proprietario dello storico negozio in via Montenapoleone chiuso nel 2014 a Milano Sono figlio di un arrotino, sono stato obbligato ad adattarmi, a seguire una strada di perfezione di conoscenza del coltello con l’aiuto di mia moglie.” Ha proseguito poi: “Ho girato il mondo, ma non solo. Bisogna innamorarsi del lavoro per farlo bene, bisogna esser curiosi, uscire, andare nei musei a conoscere gli artigiani che riescono a fare oggetti d’arte. Le case reali, ad esempio, hanno obbligato ad arrivare al massimo. E’ importante far amare gli oggetti taglienti, in modo che nessuno si accontenti di un semplice coltello. Bisogna puntare sulla qualità, così da poter suscitare un’emozione in chi lo usa che impara ad apprezzarne il grande valore dell’oggetto che ha in mano e non lo considererà più un banale coltello.

Il convegno si è chiuso con gli interventi di Domenico Fraraccio delle Coltellerie Fraracci; Valter e Marco Collini, due giovani arrotini; Andrea Berti di Scarperia e Patrick Grassi, il regista del film di cui vi ho già parlato.

Chi frequenta Madonna di Campiglio non può non conoscere la storica coltelleria “Lorenzi”, un vero paradiso per gli intenditori, una piacevole scoperta per i profani.
Ho chiesto al Signor Michele Terzi che con la moglie, Roberta Lorenzi, gestisce il prestigioso negozio due parole sulla sua attività e un pensiero sul Convegno di Spiazzo.

Da quando siete presenti a Madonna di Campiglio?

Noi siamo a Campiglio dal 1973 e da quest’anno ci siamo spostati da via Dolomiti di Brenta in piazza Righi per una questione logistica e commerciale, ma anche perché i locali sono nostri.
La famiglia di mia moglie, il nonno precisamente, emigrò a Milano, infatti il Lorenzi di via Montenapoleone è zio di mia moglie.

Un suo bilancio sul Convegno di Spiazzo e sulla sua professione oggi.

Reputo sia stato un bellissimo convegno, organizzato alla perfezione, anche se esiste sempre un margine di miglioramento. L’auspicio è che si rifaccia in futuro, perché ha avuto un ottimo riscontro e la gente è contenta che sia partita questa iniziativa importante.
Sono pienamente d’accordo con chi sostiene sia fondamentale aggiornarsi, strar al passo con i tempi far collimare le proposte con le richieste. Vendevamo cinquant’anni fa i nostri manufatti e ora sono tornati in auge; molta gente che non sapeva nemmeno esistessero li ha scoperti e ha imparato ad apprezzarli.
Certo, la realtà è più difficile oggi per una questione di costi e l’impegno è sempre più gravoso e riveste un ruolo importante per dare una scelta ampia ma di qualità al cliente. Inoltre, conta molto anche il luogo in cui si opera e Campiglio è una bella vetrina sia per il mercato interno che per quello estero che apprezza l’artigianalità di un prodotto. Ripeto: professionalità e conoscenza aiutano molto.

La vetrina della coltelleria Lorenzi in piazza Righi a Madonna di Campiglio
La vetrina della coltelleria Lorenzi in piazza Righi a Madonna di Campiglio

Conoscevo Aldo Lorenzi da tanto tempo, anche se non ne avevo memoria effettiva. Per diversi anni, quand’ero piccolo, nel mese di Dicembre accompagnavo i miei genitori a scegliere pensieri di Natale a Milano e mia madre seguiva ogni anno un rito che risaliva ai suoi anni universitari con tappe fisse in alcuni negozi. Uno di questi era, appunto, la storica coltelleria di Aldo Lorenzi in via Montenapoleone.
Il Convegno di Spiazzo ha spinto i miei a riportarmi alla mente quei ricordi un po’ sbiaditi… Mi son fatto coraggio e, dopo essermi aggiornato un po’, ho cercato il Signor Aldo Lorenzi da Larusmiani, dove sono ancora in vendita i suoi preziosi oggetti, dopo che ha chiuso il negozio.
Qui di seguito, trovate quanto, con grande disponibilità, mi ha detto in merito al convegno di fine Giugno. Ma non è finita! Da gran Signore, quale è, ha accettato un’intervista più ampia che sto sistemando e che vi proporrò quanto prima. Tenetevi pronti…

Ha avuto un ruolo nella organizzazione del raduno e se sì quale ?

Sì l’ho avuto, in quanto sono uno dei soci de La Trisa, l’associazione che ha organizzato l’evento. Quando mi è stato chiesto se potessi partecipare, ho accettato volentieri perché sono una persona che crede molto nelle origini. Ho anche portato una piccola parte della mia collezione, cento pezzi su duemila . Li ho portati e li ho sistemati nelle bacheche. Ho messo anche le insegne del negozio di Milano.

Un giudizio sull’evento ?

Stupendo, in relazione al luogo, cioè un piccolo paese della Val Rendena, e poi perché il nostro è un lavoro abbastanza povero, perciò riuscire a radunare così tante persone è stata una cosa anomala. Come anomalo è stato quando nel 1983 abbiamo fatto il percorso da Spiazzo a Milano, a piedi con le mole. Quindi si può dire che siamo dei cocciuti, testardi e, quando vogliamo fare una cosa, non ci tiriamo mai indietro.

Cosa si augura per il futuro ?

Sarei contento se il raduno internazionale degli arrotini fosse ripetuto, ma trovo che per tutte le cose fatte con buon successo è preferibile fermarsi, piuttosto che ripeterle a un livello inferiore. Infatti, penso non sia opportuno ripetere una cosa se non si è sicuri, è meglio lasciar perdere e morire in piedi.

Che ne pensa dell’idea di un museo degli arrotini?

E’ ben quindici anni che vogliamo fare il museo dell’arrotino a Spiazzo, ma non siamo ancora riusciti a venirne a capo, perché il problema principale è che deve esser approvato e sponsorizzato e voluto dalle amministrazioni comunali, provinciali e regionali. Finché non vogliono veramente, se ne parla solamente. La mia richiesta è sempre andata nella direzione di un museo aperto tutte le stagioni, otto ore al giorno, perché solo così ha ragione di vivere. Altrimenti, se cioè è aperto solo ad ore, per visite o appuntamento in alta stagione, serve solo per accatastare e non ha una logica. Sono nato bottegaio e so che la bottega deve esser aperta anche se non viene nessuno. Ho avuto grosse discussioni con i sindaci al riguardo. Capisco che sia una cosa impegnativa, ma è anche istruttiva. Il mondo è cambiato e va avanti con l’istruzione e la conoscenza. Allora bisogna aprirlo alle scuole, alle istituzioni, agli stranieri, ai turisti che vanno a Madonna di Campiglio e agli arrotini stessi. Inoltre serve una persona fissa, che sappia le lingue e che si dedichi totalmente a questo, allora sì è una cosa meritoria, altrimenti non è un museo. Ho anche proposto che, se c’è un problema economico per questa figura, possono togliere una persona dal Comune. Adesso il mio lavoro è catalogare ciò che ho, indicare cioè di ogni oggetto data, luogo di costruzione e materiale; sistemare anche i tantissimi libri. Se ci sarà un museo con le caratteristiche che ho evidenziato, donerò volentieri il mio patrimonio, oppure lo affiderò a un ente che lo faccia vivere, altrimenti lo regalo.

Una parte della collezione di Aldo Lorenzi
Una parte della collezione di Aldo Lorenzi

Qualcuno ha affermato che il turista, per amare il luogo che frequenta e nonsentirsi solo ospite, deve conoscerne le radici. Credo di aver dato ancora una volta il mio contributo in questa direzione.