Si è chiuso il 2016, un anno segnato da fatti rilevanti a livello geopolitico internazionale. Per analizzarne qualcuno, ma soprattutto per capire cosa ci aspetta in questo nuovo anno, ho pensato di intervistare Guido Olimpio, giornalista de Il Corriere della Sera che segue l’evoluzione del terrorismo internazionale, con un occhio particolare all’uso dei media e della rete da parte loro. Olimpio è dal 2007 inviato a Washington mentre in passato è stato corrispondente da Israele (1999-2003) ed è stato vice responsabile degli Esteri e del servizio grandi cronache.
Il 2016 è stato caratterizzato da molti eventi internazionali, alcuni davvero clamorosi e inaspettati. Quale, secondo lei, anche alla luce delle ripercussioni che avrà sul nuovo anno, il più importante? Quello più sorprendente?
Certamente l’elezione di Donald Trump. Non è stata del tutto una sorpresa, ma per i suoi effetti lo è comunque, perché può ridisegnare gli equilibri e le crisi internazionali, a cominciare dai rapporti con la Russia e il duello con la Cina. Ovviamente, va fatta la tara a quanto detto prima dell’insediamento, quando farà il suo ingresso alla Casa Bianca la sua visione potrebbe mutare. L’agenda non dipende solo dal presidente, bensì da quello che accade nell’arena globale. Le posizioni del neo-eletto possono inoltre innescare contrasti non da poco nel campo repubblicano, poco morbido verso Mosca.
Chi merita il riconoscimento di “uomo dell’anno”? Per quali motivi?
Vladimir Putin ha marcato con le su iniziative il 2016, a partire dalla Siria. Un intervento reso possibile dalle caratteristiche del potere russo: di fatto non ha opposizione, il consenso – reale e fittizio – favorisce l’interventismo. E’ anche vero che rispetto agli Usa ha meno vincoli. Non si può poi dimenticare l’azione costante dei russi per indebolire la compattezza europea. L’appoggio costante ai partiti “anti sistema”, così come il sostegno a Trump, hanno scompaginato le carte. Azione politica unita ad attività più “coperte” per fiaccare i rivali e al tempo stesso far crescere il peso della Russia. Con finalità strategiche ed economiche.
E chi sceglierebbe come “donna dell’anno”? Perché?
Jo Cox ( deputata laburista, europeista convinta, si è battuta per la permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea n.d.a.)Ha pagato con la vita (il 16 Giugno di quest’anno quando mancavano pochi giorni al referendum previsto per il 23 dello stesso mese n.d.a.) il suo impegno in favore dell’Europa. Anche se il suo killer è un individuo isolato, non c’è dubbio che esce da un’atmosfera violenta e di intolleranza ormai dilagante in tutta Europa. Non penso che sia un caso che l’esponente politica sia stata assassinata in una fase delicata della nostra storia.
Che bilancio si sente di fare degli otto anni di presidenza Obama?
Positivo, almeno sul piano interno. Su quello internazionale è un giudizio a metà. Giustamente ha cercato di evitare guai e nuove avventure, ha puntato a creare un nuovo rapporto con nemici storici: importanti gli accordi con Iran e Cuba. Ma ha peccato di indecisione e timori in Medio Oriente. Non ha voluto impelagarsi nella crisi siriana, dunque ha svolto un ruolo parziale, cercando di appoggiare – con cautela – una parte dei ribelli. Non ha funzionato, perché comunque si è trovato stretto tra partner locali che cercavano di imporre le proprie agende rispetto a quelle regionali. Da non trascurare l’azione anti Isis. Vero è che il movimento rimane una minaccia, ma rispetto a due anni fa ha perso uomini e territorio.
Negli ultimi giorni il Presidente americano ha affermato che, se avesse potuto candidarsi per un terzo mandato, avrebbe vinto ancora: cosa pensa di questa affermazione? Non suona come una critica implicita alla Clinton?
E’ un’affermazione inutile. Non cambia nulla. Però è vero che può essere una critica alla Clinton. Dopo le presidenziali, Obama non ha nascosto il suo dissenso su come Hillary abbia condotto la campagna. Ha rimproverato all’ex segretario di Stato di aver trascurato settori sociali consistenti.
Trump ha vinto più per meriti suoi o per demeriti di Hillary?
Trump ha vinto perché più convincente, ha catturato consensi in quelle fasce che si sono sentite trascurate dal potere politico, ha cavalcato incertezza e paura usando in modo efficace alcune immagini, facili da comprendere, come quella del nuovo muro. Inoltre, ha lanciato slogan che hanno colpito l’immaginazione del cittadino che ha la percezione – ripeto la percezione – di un’America debole, insidiata da altri. A tutto questo, si è aggiunta l’antipatia verso la Clinton, simbolo dell’establishment. Anche se poi alla fine il voto popolare è stato conquistato da Hillary, quasi 3 milioni in più rispetto al rivale. Non è cosa da poco.
Cosa dobbiamo attenderci dal nuovo presidente? Cosa dobbiamo temere di più?
L’imprevedibilità. La scarsa esperienza. Una visione rozza e sommaria del mondo. Lo strano rapporto con la Russia: non si è mai visto un presidente americano così sbilanciato. Viene da chiedersi se ci sia solo simpatia verso il Cremlino o invece, come sospetta qualcuno, esistano fattori diversi che legano il miliardario alla Russia. Altro punto da seguire sono i rapporti con gli alleati atlantici. Potrebbero essere messi a dura a prova. Però, come dicevo prima, un conto sono i discorsi elettorali, un’altra cosa la realtà presidenziale. Obama ha raccontato che la prima volta che gli hanno fatto un briefing dell’intelligence avrebbe voluto lanciarsi alla finestra.
Pensa che si riuscirà ad arrivare una soluzione del conflitto fra Israele e Palestinese?
Sono pessimista, posizioni sempre lontane. E se Trump dovesse spostare l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, potrebbero sorgere nuovi guai.
Che prospettive intravede, invece, per la Siria e la Libia?
In Siria è interessante l’accordo di tregua sponsorizzato da Russia, Turchia e Iran. Può essere l’inizio di una fase, ma deve essere riempito di contenuti. Bloccare le armi è importante, serve poi un processo politico che si concluda alla fine con l’uscita di Assad. Magari non subito, ma è necessaria una svolta profonda e concordata.
La Libia è destinata a rimanere tale: tante milizie, lotta di potere, intrusioni esterne. Occidentali, russi, Turchia, Qatar, Emirati, Egitto, tutti attori che provano a influenzare gli sviluppi. Per l’Italia rimane un pericoloso fronte: a causa del flusso dei profughi e per i rischi legati alla sicurezza dei siti petroliferi.
E’ convinto che il rischio di attentati terroristici sarà col tempo eliminato o, come dicono alcuni, siamo destinati a conviverci?
Il terrorismo durerà a lungo, magari con forme diverse. Purtroppo dovremo convivere con questa minaccia. E’ in continua evoluzione, si adatta alle contromisure. Una eventuale sconfitta militare dello Stato Islamico ne ridurrà le capacità, ma non eliminerà l’ideologia jihadista in molti giovani che vivono in Occidente. Troppo spesso si dimentica, o si vuole ignorare, che lo Stato Islamico è una fazione che raccoglie istanze di una parte del mondo sunnita; poi le manipola e le usa per i suoi fini, ma il problema esiste. Inoltre, è un movimento che è poi parte di uno scontro regionale che oppone sciiti e sunniti. Dunque non sarebbe strano se fosse rimpiazzato in futuro da un’altra formazione.
Cambiando decisamente argomento, com’è mutata la professione del giornalista da quando lei ha iniziato, gli anni Ottanta, fino ad oggi?
Un flusso di news altissimo, una moltiplicazioni di fonti, la necessità di rispondere in modo più rapido. Si aveva più tempo per “ragionare”, analizzare. Oggi si corre il rischio di compiere errori di valutazione. Si è anche allargato il territorio da coprire e non solo in senso geografico. Dallo Sport alle pagine di esteri si seguono temi e aspetti molto diversi. Nelle redazioni c’è anche meno possibilità di “fare scuola”. C’era un percorso professionale, a volte ingiusto e tortuoso, che tuttavia sembrava avere una meta. Firmare un articolo non era così facile, i responsabili dei desk lo facevano rifare, erano molto esigenti, anche con un “pastone” di agenzia. Adesso c’è meno pazienza, gli organici sono ridotti rispetto alle esigenze, mentre la domanda di informazione sale.
Qual è il periodo della sua carriera che le ha dato le maggiori soddisfazioni?
Tre fasi. La prima quando lavoravo al desk, compito poco gratificante, ma che mi ha insegnato tanto. La seconda durante il mio lavoro di corrispondente in Israele: ho potuto coprire ogni aspetto, dalla cronaca più dura – ad esempio gli attacchi suicidi – alla politica, avendo accesso a fonti e potendo costruirne di altre. Infine il periodo qui negli Usa, mi ha aperto ancora di più l’orizzonte con suggestioni e temi. Direi tutte palestre formidabili.
Che consigli si sente di dare ad un giovane che aspira a diventare giornalista della carta stampata?
Essere pronto a fare di tutto, ma iniziare sin da subito a sviluppare una propria “specializzazione”, con ricerca, studio, passione. Molto va fatto non perché è lavoro, bensì perché ti interessa a prescindere se scriverai qualcosa o meno. Cercare di essere rigorosi, di non dare nulla per scontato. E costruirsi un archivio, aiuta a seguire il proprio “filone”, ti aiuta nel momento che ti chiedono – magari a sorpresa – un articolo.
Ringrazio Guido Olimpio per la grande disponibilità dimostrata e gli auguro buon lavoro.
A voi tutti auguro, semplicemente, che il 2017 sia veramente un BUON ANNO.
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